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LA PELLE NUOVA

23-09-2021 10:08 - News Generiche
Cambiano la propria pelle rigida le serpi nere (li scursuna) con cadenza periodica, naturalmente, con poco dolore, per la necessità di crescere. Gli uomini, al contrario, lo fanno raramente nella vita e lo fanno per un bisogno irrinunciabile di trasformarsi radicalmente, per un trauma profondo e lacerante, che ha scavato con violenza il loro vecchio modo di sentire e di esprimersi e li ha “scorticati”, tanto da doversi rifare una “pelle nuova” .
Ignazio Buttita, poeta popolare siciliano del ‘900, che ha vissuto da protagonista le due guerre mondiali, le prime rivolte socialiste degli anni ’20 in Sicilia e la lotta partigiana in Lombardia, ha dovuto “cambiare pelle” una prima volta negli anni ‘50, quando il passaggio epico dei contadini siciliani dalla schiavitù del feudo alle lotte per la terra e per la libertà ha spinto i suoi versi, da sempre aspri ed intensi come la terra natìa, priva di mediazioni, e come il suo dialetto crudo ed essenziale, a diventare espressione pubblica di una rivolta collettiva, strumento di maturazione delle coscienze e di cambiamento della realtà.
Così le sue poesie, pubblicate durante il fascismo in piccole riviste alternative e note essenzialmente ad una cerchia ristretta di intellettuali e di militanti politici socialisti, sono diventati “cunti” di piazza, da recitare o cantare per un solo pubblico: quello dei proletari analfabeti, gravati dalla fatica inumana dei campi e delle zolfare, a cui il dialetto autentico e ricco di Buttita (ben lontano da quello addomesticato e folkloristico di più recenti autori siciliani di successo), risvegliava dentro un bisogno di identità storica e di riscatto umano, sia che fosse declamato direttamente dal poeta o musicato dai “suoi” cantastorie (primo fra tutti l’indimenticabile Ciccio Busacca).
E poi ancora, all’inizio degli anni ’60, quella “storia di anni infuocati”, che gli aveva fatto desiderare, al di là degli iniziali “limiti dell’amore”, di “essere un pesce dentro la rete, in mezzo agli altri pesci, impegnati a sfondarla”, ha modulato, di fronte ad un pericolo di distruzione che accomuna popoli e classi, temi più universali e l’ha riportato ad un nuovo senso dell’amore: quello per la persona e per l’uomo. La lingua era sempre la sua, quella “data in dote dai padri”, ma la terra era il mondo.

Nel 2021, a 24 anni dalla sua scomparsa, il nipote Emanuele, che cura la Fondazione dedicata al celebre nonno, ha pensato di compiere l’ultimo passo, decidendo di fare anche cantare in italiano quei versi, ormai tradotti per iscritto in tante lingue (a partire dalla prima versione in italiano di Salvatore Quasimodo), ma pronunciati finora sempre rigorosamente in siciliano. Era un passaggio rischioso, dato l’intrinseco legame, in Buttitta, tra forma e sostanza, tra dialetto siciliano e pensiero poetico, che aveva bisogno, perciò, dell’artista adatto e lo ha trovato ora in Bobo Santo Otera, “fondatore, cantante e performer della Taberna Mylaensis”, un gruppo siciliano nato in altri “anni infuocati” (quelli ’70 del ‘900) che, soprattutto nei primi anni di attività, “ha fuso amicizia, musica e politica”, in quel legame inscindibile tra vita e scelte di impegno sociale, che ha segnato profondamente buona parte di quella generazione. Ma Otera era l’artista “giusto” per questa innovazione anche perché ha sempre amato “cambiare pelle” ed attraversare nuove esperienze espressive ed era pronto a farlo anche ora, "nell’estrema forma del vissuto, dopo altre che ha avuto il bene di vivere”. Lui, che ha conosciuto direttamente il poeta, lo ha cantato e lo ha amato per quello che era, può ora non tradirlo, cercando nei suoi versi altra musica e forma.
Il nuovo “ambiente musicale”, creato con la collaborazione di Gabriele Ferrarese, fonde “strutture classiche, archi e sintetizzatori”, rumori e parole. I versi non sono tutti tradotti: anche all'interno di una stessa poesia, in molti casi, resta una parte in siciliano, essenziale a mantenere l’impronta linguistica di Buttitta, ed il recitato continua a fondersi col cantato, secondo la tradizione dei cantastorie. Cambia (e non poteva non cambiare, per non tradire lo sviluppo storico), il pubblico a cui ci si rivolge e che condiziona la comunicazione. Oggi non è più tempo di piazze, di contadini in rivolta, è tempo di ascolto meditato, di riscoperta di temi allora anticipati dalla lungimiranza poetica ed ora balzati in primo piano: ne perde in parte la specificità storica e geografica, ma ne acquista l’universalità della poesia (basta ascoltare quella “Lettera ad una mamma tedesca” o “Le donne lasciano segni”), anche nella rivisitazione musicale di alcune tematiche tipiche di questa poesia “epica” siciliana, come “A stragi da Purtedda”, scritta da Buttitta nel 1983, o “Un seculu di storia”, denuncia dura di tutte le stragi del ‘900 e dei loro responsabili, cantate ancora, non a caso, tutte in siciliano.
Dall’ascolto attento del cd si trae insomma la certezza che Bobo Otera ha saputo trovare un modo nuovo di “essere insieme agli altri”, più consapevole, pieno di una rabbia meno immediata ma non meno profonda: sempre vibrante di quella tensione alta che è la poesia.


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