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DALL’ASI ALLA ZES: errare è umano, perseverare…

04-03-2019 09:20 - Le inchieste
Il trinomio “industrializzazione-occupazione-sviluppo del territorio” è uno stereotipo talmente radicato nel Meridione d’Italia, fin dalla seconda metà del ‘900, che è difficile oggi dimostrarne il fallimento storico e la sopravvenuta irrealizzabilità economico-sociale, nonostante i disastri territoriali ed umani che sono sotto gli occhi di tutti a Taranto, in Campania, a Gela o nel milazzese. Territori urbani ed agricoli devastati dall’inquinamento ambientale, bambini malformati o uccisi precocemente dal cancro, fabbriche chiuse da decenni, con operai cronicamente sussidiati a vario titolo, non sembrano un prezzo abbastanza alto da pagare al tabù del “lavoro produttivo” ed anzi si è disposti ad offrire sempre di più, in una corsa sacrificale, che un tempo si faceva almeno in nome di figli e nipoti e che oggi, invece, sacrifica per primi proprio loro sull’altare dei profitti multinazionali, che desertificano i territori, sfruttandoli per tempi sempre più brevi e devastanti.
A Patti, negli anni ‘80, si sacrificò sull’altare della zona ASI (Area di Sviluppo Industriale) la vallata del Timeto, ricca di ulivi secolari, di agrumeti e di rinomati vigneti, di importanti presenze archeologiche, di un prezioso ecosistema fluviale e di numerosi pozzi di acqua potabile, otto dei quali ancora utilizzati (tramite una centrale di sollevamento) dall’acquedotto comunale. Furono inutili, allora, le battaglie delle associazioni ambientaliste e di quelle degli agricoltori, l’allarme dell’Ufficiale sanitario, le ingiunzioni della Soprintendenza a tutela del paesaggio e quelle della Regione sulla fragilità geologica dell’area. Anzi, già prima che l’ASI fosse ufficialmente insediata, il capannone della “Ceramiche Caleca” fu innalzato nel 2000 dal proprietario, che creò da sé anche i collegamenti fognari, in spregio a divieti e controlli (ovvero di “lacci e lacciuoli burocratici”, secondo le sue dichiarazioni di allora), a pochi metri di distanza dal pozzo Ronzino, dove oggi l’edificio con i suoi scarichi illegali resta, anche se ormai tristemente vuoto ed inutilizzato, di fronte ad una recente piattaforma di rifiuti speciali, messa lì giusto per completare il disastro.
Oggi le aree ASI (dopo vane e travagliate trasformazioni) hanno dichiarato ufficialmente in Sicilia il proprio fallimento, senza farsi carico peraltro di risanare i territori inutilmente invasi da cemento ed amianto. Cosa hanno fatto allora amministratori e governanti? Hanno forse deciso di attuare loro il risanamento e di riconvertire finalmente ad agricoltura e turismo quelle zone? Ma nemmeno per sogno! Continuano a sperare nell’arrivo di magnati nostrani e stranieri, illudendo i cittadini che si tratti di benefattori e non, come è inevitabile, di rapinatori.
Il nuovo cavallo di Troia lo ha costruito il governo Gentiloni, che ha emanato nel 2017, in nome dell’abusato ritornello sullo “sviluppo del Mezzogiorno”, un Decreto Legge (il 91/2017, detto “Decreto Sud”) che ha introdotto le ZES. Le “Zone economiche speciali” sono alcune aree meridionali, collegate ad un porto, disposte ad offrire agevolazioni fiscali, semplificazioni amministrative e deroghe normative ad imprese già insediate o che si insedieranno, nella speranza di attrarre soprattutto investimenti stranieri. La condizione essenziale del porto la dice lunga sulla totale indipendenza di queste nuove cattedrali dal territorio circostante e dalle sue carenze infrastrutturali, che non saranno colmate. Lo schema delle Zes deriva non a caso da paesi extraeuropei (le più famose e sviluppate sono in Cina e a Dubai, due paesi simbolo di sfruttamento di manodopera, inquinamento ambientale e distruzione dell’identità sociale), ma ha trovato fortuna anche in Europa, dove già esistono una settantina di Zes, 14 delle quali istituite in Polonia, con un’esenzione fiscale tra il 25 e il 55% ed un trattamento derogatorio delle norme a tutela del lavoro.
In Sicilia si parla già dell'area portuale di Catania-Augusta-Siracusa e di quella di Palermo-Termini Imerese, ma sono in gioco anche la già intasatissima area di Gela e quelle di Messina e di Milazzo, che aspirano ad istituire una propria zona economica speciale, includendo anche aree territoriali non direttamente adiacenti all’area principale, purché legate da “un nesso economico funzionale con la zona portuale”. La principale agevolazione del Decreto Sud per le ZES consiste in un credito di imposta, proporzionale al costo dei beni acquistati entro il 31 dicembre 2020, fino a un massimo di 50 milioni di euro a progetto di investimento. Per ottenere i benefici, però, le imprese dovranno mantenere le attività nella Zes per almeno cinque anni successivi al completamento dell’investimento oggetto delle agevolazioni, pena la revoca dei benefici concessi e goduti, e non devono essere in liquidazione o in fase di scioglimento. Poi potranno ripartire, lasciando lì i danni che avranno prodotto.
Naturalmente il Comune di Patti, che continua a mancare di un proprio progetto coerente di sviluppo, limitandosi ad inseguire i finanziamenti più disparati, è pronto a buttarsi nella mischia e, nella speranza di aggregarsi all’area portuale di Milazzo, propone di convertire l’ex area ASI della valle del Timeto a Zona economica speciale, condannandola a restare nel pantano di un’industrializzazione farlocca, che appare solo se ci sono soldi da acchiappare, spargendo qualche briciola sul territorio.
Chi oserà opporsi ad un progetto sbagliato, ma accompagnato dalla consueta retorica dei “posti di lavoro” e dello “sviluppo del territorio”, che contrabbanda guadagni per pochissimi (alcuni dei quali già facilmente identificabili) ed ulteriori danni per tutti?



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