SE IL VIRUS SIAMO NOI, LA TERRA SI DIFENDE

08-04-2020 15:59 -

Per tutto l'anno scorso, l'emergenza più vistosa del nostro pianeta è stato l'inquinamento industriale, le cui conseguenze sul clima e sulla contaminazione di aria ed acqua lasciavano intravvedere scenari apocalittici, anche perché nessun Paese industrializzato sembrava disposto ad assumere misure efficaci, ma solo ad aggiungere l'ambiguo aggettivo “ecologico” ai soliti investimenti. La Terra, allora, ha fatto da sé.
A fine anno infatti, lentamente, è apparso il rischio epidemia da coronavirus, un rischio che sembrava inizialmente geograficamente limitato e non diverso dalle tante altre epidemie diffuse oggi solo in alcune aree della Terra (come l'ebola, la tubercolosi, la malaria) o in fasce particolari della popolazione (basti pensare all'AIDS, una “peste” che privilegia omosessuali e tossicodipendenti).
Ma il nuovo virus ha dimostrato in poche settimane caratteristiche molto particolari, diffondendosi soprattutto nelle aree altamente industrializzate (lo Wuhan in Cina, la Lombardia in Italia, la regione di Madrid in Spagna) ed attaccando ogni ceto sociale (per la prima volta tantissimi i VIP contagiati) ed ogni fascia della popolazione, con un'insolita minore virulenza in soggetti per definizione “deboli”, come donne, bambini e alcune razze africane. L'estrema mutabilità del virus, inoltre, e la risposta diversissima di ogni ammalato (dalla mancanza di sintomi alla morte rapida), ha lasciato i medici (e le industrie farmaceutiche) privi di vaccini e di rimedi.
Ciò ha costretto i governanti a prendere contromisure inedite, come l'isolamento sociale (chiuse le scuole, scomparse le movide, vuoti gli stadi e i ristoranti, bloccati i grandi concerti, vietato lo shopping) e, soprattutto, per la prima volta nel Mondo Occidentale, ferme la maggior parte delle fabbriche (che al contrario, in guerra, fanno sempre grandi affari). Quest'ultimo provvedimento, in poche settimane, ha ripulito acqua ed aria: basti pensare, in Italia, al fiume Sarno, tornato limpido come non mai, o a quei cieli cinesi, normalmente offuscati da tanto smog che (non dimentichiamolo!) le mascherine a Pechino facevano parte ormai da anni dell'abbigliamento quotidiano.
Tutto ciò ci obbliga ad una riflessione che non metta come sempre al centro la specie umana e le sue società più forti, ma l'intero pianeta e la natura nel suo insieme. La vera epidemia mortale di questa Terra, infatti, è la nostra società industriale, non solo per l'inquinamento di cui parlavamo all'inizio, ma anche per l'esaurimento imprevidente delle materie prime essenziali e per la globalizzazione di produzione e commercio, che dà per scontata la piena libertà di movimento delle merci, delle imprese e dei lavoratori (quei migranti così comodi per abbassare le richieste operaie!). Spostarsi in aereo è diventato più frequente (e più economico) che viaggiare in treno, mentre intere popolazioni sono costrette a migrare da aree destinate ormai solo alla desertificazione e alla rapina delle materie prime. Le piantagioni hanno sterminato habitat incontaminati (prima fra tutte la foresta amazzonica) e l'allevamento intensivo (al di là delle considerazioni morali degli animalisti) ha avvelenato le carni alimentari ed ammorbato l'aria di vastissime zone.
La Terra e la Natura, si stanno difendendo, però, efficacemente: attaccate dal virus delle nostre società industriali, stanno cercando di neutralizzarlo con un anticorpo, che noi chiamiamo virus, ma che è un semplice meccanismo di difesa.
Forse, tanti secoli fa, è stato proprio un piccolissimo virus anticorpale a sterminare i Dinosauri, la specie divenuta tirannica ed implacabile dominatrice e distruttrice della Terra, come lo è oggi l'Uomo Occidentale. A differenza dei Dinosauri, però, che rispondevano ad un istinto animale difficilmente modificabile, la società umana è storicamente capace di grandi rivoluzioni nella propria organizzazione antropologica ed è articolata in gruppi con ben diverse responsabilità nelle scelte economiche e sociali, alcuni dei quali potrebbero finalmente rimettere sui piedi un mondo, che oggi appare gravemente capovolto.